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L'altra faccia di Bali

  • Immagine del redattore: Saz
    Saz
  • 2 ago 2017
  • Tempo di lettura: 5 min

Originally published on 02/08/2017 on Letteradonna.it, © NEWS 3.0 S.p.A. via Garofalo 31, 20133 Milano - P.IVA 07122950962   



Life in plastic, it's fantastic cantavano gli Aqua nella loro Barbie Girl, hit musicale del 1997. Mi è venuta in mente il mese scorso mentre mi aggiravo per le strade di Ubud, rinomata cittadina nel mezzo della campagna balinese. Bali, penserete: isola paradisiaca dalla giungla rigogliosa e spiagge chilometriche. Provate a dirlo ad alta voce: Bali! Non vi sentite già più rilassati? In realtà, no.

Bali è l'isola dalle trafficate strade a corsia unica, code chilometriche di camion, auto e scooter che schizzano fuori da ogni angolo libero. E il mare? Certi cavalloni che ti prende uno spavento ogni volta che provi a nuotarci, facendoti strada tra i surfisti. E infine: Bali, isola sognata, popolata e costruita su misura, in plastica, dai digital nomads di tutto il mondo.

Cosa ve lo spiego a fare, probabilmente molti di voi mi stanno leggendo proprio dalla loro postazione laptop, magari tra un progetto e l'altro di una vita da freelance: i digital nomads sono lavoratori che hanno fatto della tecnologia mobile una carriera, lavorando da remoto attraverso computer portatili e cellulari. Più remoto che remoto non si può, di solito: questi professionisti digital sono anche nomad perché tendono a spostarsi spesso, approdando in Paesi a basso costo della vita, per poter risparmiare ed esplorare il mondo pur continuando a lavorare, remotissimamente. E io, che in questi mesi di viaggio mi sono divertita a giocare alla digital nomad, spostandomi di qua e di là, scrivendo ogni settimana questa rubrica da un posto diverso, mi chiedo: potrei mai vivere così, per davvero? Forse, rispondo ripensando alle belle terrazze di risaie che circondano Ubud, specchi di cielo interrotti soltanto da qualche palma qua e là. Dopo tutto è così che vive Remy, il mio fidanzato e compagno di viaggio. Ed è così che vivono tantissimi degli immigrati che si sono trasferiti a Bali, e in particolare a Ubud, uno dei luoghi prediletti dai nomadi digitali di tutto il mondo.



Entrando in questo paesino - lentamente, molto lentamente causa traffico - ci si chiede come sia possibile che un posto talmente piccolo e con così tanti turisti possa anche essere il luogo dove molti stranieri abbiano deciso di vivere. Antico villaggio un tempo rinomato per i propri guaritori, Ubud è salito alle luci della ribalta dopo la pubblicazione del libro (e poi film) Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert. Da posticino in mezzo alla natura dove vivevano e andavano in vacanza pochi, illuminati, turisti che volevano tenersi lontani dalle più mondane località sulla costa sud dell'isola piene di australiani ubriachi, Ubud è diventato il posto da cui passano tutti, gli avventurieri per qualche giorno e i digital nomads per qualche mese. O anno.

La cittadina sembra proprio una cartolina che prende vita, un modellino di plastica che si anima.

Ci sono i balinesi che ti aggrediscono - sempre col sorriso - ad ogni passo, pronti a venderti souvenir, biglietti per gli spettacoli di danze tradizionali e un passaggio sui loro motorini. Tutti sono determinati a spillarti quattrini: gli uomini con dei deliziosi turbanti calati sulle teste, le donne che posano offerte di fiori su foglie di banano intrecciate a tutti gli angoli di tutti i piccoli templi induisti che spuntano dai cortili delle case di pietra scura. Poi ci sono gli immigrati in pensione, di solito australiani o neozelandesi, che da decenni hanno eletto Bali a isola perfetta dove passare la vecchiaia e si guardano intorno un po' sconcertati per tutti questi turisti che continuano ad arrivare, pullman dopo pullman. E, infine, ci sono i digital nomads, che si confondono con chi è di passaggio ma se guardi bene li riconosci: alcuni travestiti da hippie, altri semplicemente più o meno giovani. Provengono da ogni parte del mondo, camminano come se sapessero dove stanno andando.


E infatti lo sanno. Vanno al ristorante argentino, a quello messicano o a quello che ti cucina braciole di maiale con salsa BBQ all'americana. Prendono il taxi alla volta della spiaggia di Canggu, capitale hipster della costa. Si portano dietro i tappetini per seguire lezioni di yoga: quelle in cui si passa un'ora a ridere a gran voce, quelle a tempo di musica hip hop, quelle con prosecco incluso nel prezzo del biglietto. E poi seguono corsi per imparare il coding informatico e il perfetto uso di Photoshop per travel blogger ai modici costi di 2-4 mila dollari per dieci giorni. Le donne, a volte, si fanno fare anche una bella lavanda al vapore laddove non batte il sole, visto che la tradizione organizza questo rituale per le novelle spose e le puerpere e quindi perché non provare a sedersi su una sedia che spara vapore da un buco per vedere come ci si sente. Poi, tutte purificate, il mattino escono dalle loro casette davanti ai campi di riso appena fuori Ubud, nella tranquilla zona di Penestanan per esempio, e vanno a lavorare in uno degli spazi di co-working che ormai popolano la città, quegli uffici in condivisione con altri freelance in cui si paga per affittare scrivania e connessione internet veloce. Lo spazio più famoso si chiama Hubud, costo fino a 275 dollari al mese, o 20 dollari al giorno, in base ai servizi richiesti (scrivania, wifi illimitato, stanza per meeting, postazione Skype, diventare membri, eccetera).


No, non è colpa del turismo incalzante, rumoroso e affollato in aumento. Ubud è diventata una città di plastica proprio da quando sono aumentati esponenzialmente i servizi per i nomadi digitali, seguendo un modello altamente riciclabile, visto già in tanti altri posti in voga per questi professionisti (Chiang Mai e Bangkok in Thailandia, Hong Kong, Ho Chi Minh City in Vietnam, eccetera).

Piccoli mondi di plastica riciclabile fatti su misura per una nuova categoria professionale, costruiti all'interno di cornici perfette: città piene di opportunità o luoghi dalla grande bellezza naturalistica. Universi a sé stanti in cui è facile infilarsi, sembra quasi di vivere ancora a casa con le palestre, i café, il gelato e il ristorantino vegetariano. Non manca proprio niente, neanche le scimmiette che girano tra gli alberi e i lampioni, giusto per ricordarci che in realtà siamo andati lontano.

«L'importante è guardarsi dai ciarlatani, quelli che si trasferiscono dicendo di voler aprire nuovi business e avere grandi idee ma poi finiscono per non fare niente e parlare di aria fritta dandosi importanza», mi ha raccontato Leila, ragazza inglese con cui ho condiviso un taxi. Vive a Ubud da gennaio 2017 e sta cercando di aprire una propria attività digitale. «Di che tipo?», ho chiesto io. «Non ne sono ancora sicura», ha risposto lei. «Avevo un'idea quando sono arrivata ma ho scoperto che era già stato fatto. Poi ne ho avuta un'altra e ci ho lavorato per un po'. Ora però mi sa che cambierò ancora. Intanto andrò per qualche giorno a Canggu a fare un corso di yoga. Poi vedrò».


Volessi diventare digital nomad a tempo pieno, mi dico, forse sarebbe bene trasferirsi per un po' in un posto come Ubud. Se non altro per imparare da chi questa scelta professionale l'ha già presa tempo fa e gli è riuscita così bene da costruire una piccola città su misura, modello riciclabile, cambiando profondamente i contorni di un'isola paradisiaca. L'importante sarebbe tenersi alla larga dai ciarlatani, appunto, e anche capire quando è il momento di andarsene, pena il rischio di rimanere incastrata, insieme a Leila, in un piccolo, perfetto, inconcludente e autoreferenziale mondo di plastica fatto di caffè matcha e fumenti vaginali.


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