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Bangkok: amore a prima vista

  • Immagine del redattore: Saz
    Saz
  • 17 mag 2017
  • Tempo di lettura: 5 min

Originally published on 17/05/2017 on Letteradonna.it, © NEWS 3.0 S.p.A. via Garofalo 31, 20133 Milano - P.IVA 07122950962   


Il governo militare al potere in Thailandia dal 2014 ha bandito lo street food dalle strade di Bangkok: entro la fine del 2017 tutte le bancarelle che cucinano delizioso cibo cinese e thailandese a ogni angolo della Capitale dovranno chiudere i battenti nel nome di igiene e pulizia. La recente notizia ha sconvolto i foodies di tutto il mondo, soprattutto perché riguardante Bangkok, vincitrice negli ultimi due anni il titolo Best city in the world for street food conferito dalla CNN.


La nuova direttiva sconvolge anche me, appena arrivata in città. Mi bastano poche ore per rendermi conto che l’idea di una Bangkok senza street food rappresenti la violazione di un pittoresco, delizioso ed economico status quo dell’alimentazione locale. Le autorità hanno giustificato le nuove infelici regolamentazioni con la necessità di «ripulire» la città e «far tornare la felicità» nel Paese, per combattere il consumo di alcool per le vie e i traffici illeciti dei mercati notturni.

Difficile però immaginare Bangkok senza bancarelle. Mangiare dai venditori ambulanti è un’esperienza immancabile per chi visita la città, basta superare il trauma iniziale dovuto proprio alle incerte condizioni di igiene, alle mosche che girano un po’ dappertutto e ai piatti lavati in una tinozza giusto accanto al banco delle verdure. 

È come tornare indietro nel tempo, i sensi si accendono e si ricomincia a fare affidamento sul proprio istinto, quello che ci fa «sentire» a pelle, a vista e a naso se il cibo offerto da un venditore è più buono e fresco di quello cucinato da un altro. Certo, anche contando le sedie vuote e quelle piene ai tavolini sui marciapiedi non si può mai essere certi della qualità della cucina finché non si prova a mangiare qualcosa, ed è proprio questa un’altra delle ragioni per cui pasteggiare ai mercatini di strada mi piace tantissimo: bisogna fidarsi.

Fidarsi delle signore che tagliano abilmente il mango, giallo e maturo, e lo dispongono sopra lo sticky rice con sopra un’abbondante cucchiaiata di latte di cocco e fagioli mung croccanti.

Ci si siede, si sbirciano i piatti degli altri commensali, si dà un’occhiata al bancone del pesce e si sceglie il proprio granchio o branzino preferito. È bello anche perché si possono guardare tutte le fasi di preparazione dei piatti ordinati: la cucina è lì, sotto gli occhi di tutti, con le pentole appoggiate sopra fornelli improvvisati che mandano fumi in cielo.



Sì, da buona europea non posso che essere d’accordo con l’aumento delle condizioni di igiene delle strade thailandesi che ogni notte si riempiono di topi e scarafaggi e bisogna stare attenti a non calpestarli camminando sui marciapiedi (io ho accidentalmente messo il piede sopra un ratto la mia prima sera. Lui non si è scomposto e ha continuato la sua corsa verso il tombino più vicino. E io che pensavo di avere calpestato il piede di Remy per sbaglio…). Eppure, non è forse questa improvvisa attenzione alla pulizia l’ennesimo passo della Thailandia verso l’eliminazione delle proprie abitudini in favore dell’omologazione con l’Occidente?

«Fermate il mondo. Voglio scendere!» scriveva Tiziano Terzani nel suo bel libro Un indovino mi disse.

Il riferimento era alla corsa alla modernità del Sud-Est Asiatico, all’occidentalizzazione di un continente che ha perso - sta perdendo- i propri connotati tradizionali a favore della globalizzazionee delle città tutte uguali, con aeroporti tutti uguali, le stesse colazioni da scegliere in menù tutti uguali, anche dove le cose una volta erano diverse. Diverse, s’intende, proprio da quel modello di civiltà occidentale che è sgusciata alla velocità della luce fuori dai grattacieli americani e si è infilata nei sogni dei Paesi asiatici, con la Thailandia come portabandiera. Un vortice di cambiamenti in cui i thailandesi prima, e il resto degli Asiatici poi, si sono trovati incastrati e ormai è difficile scendere dalla giostra, anche tra la calma dei templi buddhisti.


Io in Asia non ci ero mai venuta prima di oggi ma mi è bastato dare un’occhiata a Bangkok per capire che questa vibrante città 50 anni fa non poteva certo avere lo stesso aspetto che ha ora: è un grattacielo unico, tutta cemento, qualche casa tradizionale col tetto inclinato rimasta incastrata tra i palazzi alti alti, il turismo ben organizzato tra i templi del centro, i mezzi pubblici ghiacciati di aria condizionata. L’unica cosa che è rimasta e anzi, si è centuplicata al quadrato, è proprio la passione per lo street food che propone pietanze tradizionali, quelle che si cucinano anche nelle case dei thailandesi.

Bangkok è un posto dall’energia unica: mi ha dato l’impressione che qui si può fare tutto, costruire, investire, crescere. Sì, è una città che si veste all’occidentale ma è ancora orientale fino al midollo, per niente simile a quello cui siamo abituati in Europa.

Mi rendo conto che il mio sia un punto di vista ridotto, quello di un’occidentale che ha provato un brivido di libertà mettendo piede in un Paese col tasso di disoccupazione virtualmente inesistente (1,3% a Febbraio 2017) e che mi ha fatto pensare che qui, davvero, con un po’ di capitale, un buon progetto e la vista lunga si possa vivere bene, almeno per qualche anno. Bangkok però resta pur sempre una città con troppi chiaroscuri, corruzione e regole non uguali per tutti, un luogo che ha venduto l’anima al diavolo. Terzani stesso che ci ha vissuto negli Anni '90 nella bellissima casa-giungla Turtle House scriveva che Bangkok è maledetta, o almeno così pensano i thailandesi di vecchia generazione: qui grattacieli e centri commerciali hanno sostituito i piccoli templi in onore degli antenati che sono ancora presenti in ogni casa, negozio e ristorante del resto della Thailandia; e così i fantasmi di Bangkok non hanno un posto dove dormire, non ricevono più offerte e si aggirano per le strade della Capitale, infelici, scagliando malocchi.

Via i templi dai giardini, via le case tradizionali e ora via anche i mercatini di strada. Il rischio che stanno correndo i thailandesi è di ricevere un altro malocchio: la perdita di quell’identità unica al mondo che si sono costruiti, a metà tra il contemporaneo e il tradizionale.

Perché se persino una schifiltosa come me si è sentita rinvigorita non appena ha messo piede in questa città dal caldo soffocante, allora significa forse che davvero la capitale della Thailandia ha ancora tanto da offrire così com’è, non solo a chi è in cerca di dinamismo e opportunità ma anche agli amanti di gamberoni alla griglia cucinati tra un tombino e un marciapiede, in libertà.


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